RACCONTI '900

Bagno Nettuno di Marina di Pietrasanta - Agosto 1994 -

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Tutti RICORDI DELLA BEFANA

All’epoca, avevo sì e no cinque anni, e stavo naturalmente nella mia casa Natale in via XX Settembre, e la sera di Befana in cucina davanti alla cappa in muratura dopo cena io e mia sorella stavamo seduti su una sedia di fronte alla cappa a cantare, insieme a mamma, zia Marianna e zio Beppe e papà alcuni canti della Befana e, puntualmente, ogni volta che chiedevamo, al termine della canzoncina propiziatoria, dei dolcetti per magia essi scendevano dalla cappa.

Un ricordo indelebile nella mia memoria. Una gioia ed un’emozione che ancora mi pervadono, specie in un anno così triste come quello che si è appena concluso. Il trucco era semplice: mio padre e mio zio si mettevano, una a destra e uno a sinistra di me e mia sorella e con maestria e velocità estraevano dalle tasche i dolcetti e li lanciavano con mira infallibile nella cappa al termine del rito propiziatorio. Non so dire se in nostra assenza facessero delle prove di lancio!

Questa bella esperienza è durata vari anni, fino a quando una volta mi girai per starnutire e vidi la mano di mio padre che lanciava i dolcetti. Ricordo che non me la presi e anzi continuai come niente fosse. Però quello fu l’ultimo anno!

Primo Natale senza mia madre. Papà se n'è andato da ormai 19 anni e sembra ieri che, bambino, nella casa di via XX Settembre si pranzava a Natale con gli zii che venivano da Cremona, con mia zia Marianna e Beppe, e poi nel tardo pomeriggio passava a salutarci zio Virgilio e il giorno prima a salutare la nonna e gli zii da parte di mia madre... ed era una girandola di regali, di affetto e di serenità. Nascere dalla parte meno sfortunata del mondo, avere dei genitori speciali e meravigliosi, famiglie legate e solidali nessuno se le può scegliere è spesso una casualità, una alchimia insondabile della quale ti rendi conto in età adulta quando la vita ti ringhia contro e ti si attacca ai polpacci e tu riesci a reagire perché nella "Cassetta degli attrezzi" della tua vita hai conservato e resi fecondi quegli anni lontani in cui i tuoi genitori e tutti i tuoi familiari ti hanno messo nelle condizioni di affrontare la vita a muso duro, forte di quell'amore e di quella voglia di vita e serenità nella quale ti hanno fatto crescere. E non si può chiedere di più dalla vita.

2 marzo 2023, Ciao Mamma 

CIAO MAMMA
Stamani alle 5,30 mamma ci ha lasciati. Si chiamava Mafalda Da Prato, ma per tutti era la Fedora. Si era sentita male ieri alle 2 di notte. Una lunga vita piena di lavoro, fatiche ma al contempo amore condiviso fra due famiglie (Genovali/Da Prato Bicicchi) unite e cariche di solidale aiuto e reciproca condivisione delle gioie e dei dolori, come capita in tutte le belle famiglie. Una condizione che mi ha regalato un'adolescenza e una pubertà indimenticabilmente meravigliose.
Mamma ha avuto una vita bella, se per bello s'intendono quei valori e quell'amore sopra ricordati, e per sua fortuna se n'è andata senza soffrire, in punta di piedi senza disturbare nessuno, com'era nel suo modo di essere e di intendere la vita.
Un grazie a tutto il reparto di Pronto Soccorso Alta Intensità del Versilia, professionisti del servizio pubblico sanitario che operano in condizioni difficili con imponenti carichi di lavoro ma sempre con grande professionalità e con sensibilità e rispetto verso il dolore e l'ansia, a volte anche fastidiosa dobbiamo ammetterlo, dei congiunti dei ricoverati.
La Camera ardente da stamani dalle ore 11 alle Sale del Commiato del Versilia e il funerale avrà luogo domani mattina ore 10,30 alla Chiesa di S. Antonio a Viareggio.

1. Libero Mariotti: il pietrasantino che partecipò alla Guerra di Spagna

2. Virgilia D'Andrea

3. Tensioni sociale e politiche a Viareggio 1919

4. Le occupazioni a Viareggio 1919

5. Viareggio-Lucchese 1920

6. La Marcia su Roma dei camerati versiliesi

7. Primo Carnera a Viareggio

8. Quando la Cultura faceva scalo a Viareggio

9. I terremotati di Messina a Viareggio

10. Cesare Battisti e il gran rifiuto di Viareggio

Libero Mariotti: Il pietrasantino – che partecipò alla Guerra di Spagna


2. “Virgilia D'Andrea, la poetessa rivoluzionaria che infiammò i cuori delle donne di Viareggio”

 

Virgilia D'Andrea, nome sconosciuto a quasi tutti è una donna che ebbe un suo ruolo nella storia di Viareggio nell'aprile-maggio del 1920. Poetessa e dirigente anarchica ebbe una grande rilevanza anche a livello nazionale e internazionale. 

Virgilia nasce l'11 febbraio del 1888 a Sulmona in Abruzzo. Il destino le riserva di rimanere orfana in tenera età e affidata alle cura di un istituto religioso femminile. Un convento dove ci sono delle parenti suore. Una sorte che non inciderà nel suo pensiero politico e nella sua azione, forse sarà proprio la permanenza in detto convento a farle maturare ben altre scelte ideali. Virgilia studia e studia molto. Ed è a soli 12 anni che avviene il passaggio del suo personalissimo Rubicone. E' il 29 luglio del 1900 quando Gaetano Bresci mette fine alla vita del re. Il re è Umberto I° e le suore del suo istituto invitano anzi, è meglio dire, obbligano le giovani che vi risiedono a pregare ardentemente per il re ucciso da mano sovversiva. 

Virgilia non è d'accordo. A lei sta simpatico il giovane Gaetano che ha deciso, alla maniera anarchica, di vendicare la strage fatta a Genova da Bava Beccaris, che dette l'ordine di sparare cannonate contro gli operai su ordine dello stesso re. E' così Virgilia: franca, schietta, ribelle e intransigente. E i rapporti nell'istituto diventano più tesi. Ma Virgilia studia e studia molto, come si è detto. Lei sa perfettamente il ruolo dello studio nella vita delle persone, specialmente di una giovane donna rimasta sola come lei. Si diploma in maestra e lascia appena possibile il convento. 

Accade nel 1909, Virgilia ha compiuto finalmente il 21° anno di età. E' maggiorenne e può decidere del suo destino come crede. Inizia a girare i paesini della sua zona nei paraggi di Sulmona insegnando. Ed è proprio attraverso questo pellegrinaggio laico e lavorativo che entra in contatto concretamente con i contadini e gli emarginati. Ma non sono un popolo senza dignità, anzi Virgilia ne ricava l'opposta sensazione. Ed è in quei mesi e anni che matura definitivamente la sua scelta di un impegno politico totale.

Alle soglie dello scoppio della Prima guerra mondiale Virgilia entra nell'agone politico. Si schiera senza reticenze o dubbi contro la guerra. Nelle riunioni e manifestazioni pubbliche incontra la gente del suo Abruzzo e anche la persona che diverrà il suo compagno di lotta politica e di vita. 

Le viene presentato Armando Borghi, sindacalista anarchico confinato in Abruzzo. Virgilia si accorge subito che non è un incontro come tanti altri. Diverrà suo mariti da lì a poco. La sua azione politica prosegue inesauribile, insieme alla sua storia d'amore con Borghi, e anche la polizia inizia a seguirla e a scrivere rapporti su di lei. 

Redige documenti riservati nei quali se da un lato di afferma che lei non dirige il movimento anarchico, dall'altra si afferma che sono le sue idee e il suo pensiero a influenzare pesantemente l'azione di Armando Borghi. Ma sarà proprio lei, la rossa Virgilia da Sulmona, a dirigere il periodico del movimento anarchico quando Borghi sarà confinato a Isernia. 

Negli anni 1919 e 1920 Virgilia viene chiamata alla segreteria nazionale dell'USI (Unione Sindacale Italiana), il sindacato anarchico.  Ed è qui che la storia di questa donna si intreccia con la nostra città.

Per preparare adeguatamente il Primo maggio, quell’anno fu deciso di indire per il 25 aprile -    data fondamentale per la nostra Repubblica nata dalla Resistenza e dalla lotta al nazi-fascismo ma che nel 1920 non rappresentava nient'altro che una domenica assolata, anche se con il senno di poi un certo brivido lo provoca - un comizio pubblico al teatro Politeama. Da Milano venne fatta venire a Viareggio una donna. Era la prima volta che quel mondo di marinai e operai avrebbe assistito a un comizio tenuto da una donna. Il suo nome era appunto Virgilia D’Andrea, poetessa e sindacalista. 

Nella Camera del Lavoro (CdL), sotto l'ombra della Torre Matilde, aleggiava scetticismo per questa scelta, nessuno, a parte il segretario della CdL e pochi altri, erano favorevoli. Ma inaspettatamente quell’arrivo suscitò la curiosità delle donne viareggine. Per la prima volta, o quasi, vollero essere presenti al comizio. Al comizio di una donna come loro. 

Virgilia D’Andrea salì sul palco del teatro Politeama, a due passi dal mare. Virgilia aveva lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle. Vestita alla maniera delle giovani donne emancipate di Milano. Era bella, bellissima. Ma adesso doveva affrontare quella platea di marinai e operai e delle loro donne. Gli occhi di tutte quelle persone erano su di lei. E lei lo sapeva perfettamente. Ne aveva fatti di comizi e di fronte a pubblici ben più ostili e ostici di quello. Lì era a casa sua. Si sentiva a casa sua fra quegli operai e quei marinai ma, soprattutto, fra quelle donne vestite di nero e senza il tempo e i soldi per il trucco o per vestirsi alla moda.

Iniziò a parlare lentamente. I gesti misurati e saturi d’esperienza. Ma ben presto il suo carattere irruento e appassionato prese il sopravvento. Iniziò a parlare più rapidamente. A gesticolare. I suoi lunghi capelli rossi adesso si erano un po’ scomposti dando al suo viso una luce particolare. Una ciocca color rosso ruggine le si era posata sul viso amplificandone il colore da una delle luci del teatro fisse su di lei. 

Sì, era bella, si dicevano gli uomini in sala fra di loro. Uomini che non conoscevano la paura, il terrore sì, ma quello è un’altra cosa, quello è fisico. Sono uomini che ridono e scherzano in alto mare, anche nel bel mezzo di una tempesta. Parlano male delle donne altrui e si arrabbiano pesantemente se qualcuno prova a parlare senza rispetto delle proprie donne. E poi alla fine ridono della loro sciocca gelosia fuori luogo. Ma non lo fanno per umorismo, ma perché altrimenti si sentirebbero perduti in mezzo a quell’inferno di acqua e di vento. L’orrore e la fatica del mare poi spariscono quando gli voltano le spalle. Ne parlano con freddure volgari e rabbiose, è un modo come un altro per non impazzire.

E adesso sono lì ad ascoltare quella donna che parla la loro lingua, solo senza moccoli o bestemmie. Ma fu la politica che li fece definitivamente innamorare di quella creatura. Un sapiente misto di sensualità, dolcezza e durezza tipica delle rivoluzionarie, pensarono. Una donna così diversa dalle loro donne. 

La sua voce adesso era come un temporale che investe la costa durante la stagione estiva. Irruento, violento, inarrestabile. Si lasciarono coinvolgere. Rievocò i morti italiani impiccati a Chicago, criticò i riformisti che stavano bloccando il movimento rivoluzionario, inneggiò alla rivoluzione, alla giustizia sociale. Diceva cose vere, giuste. Accidenti. Erano le stesse cose che pensavano loro solamente pronunciate in modo più forbito. 

La sala iniziò a inneggiare a lei. A sottolineare le sue affermazioni con applausi scroscianti: Rivoluzione! Giustizia sociale! Ribellione! Basta con i soprusi! Basta con la violenza del regno sabaudo! Come apparivano belle e possibili quelle parole a quel popolo del mare. 

Le donne si sentirono lentamente più forti. All’altezza dei loro uomini e forse anche di più, in fondo erano loro che mandavano avanti la famiglia quando erano in mare. Accidenti se aveva ragione. L’avrebbero abbracciata. Invitata alla loro tavola per mangiare e bere insieme.

Sognarono, forse, di essere come lei. Sì, proprio come lei.

Il comizio si concluse in un mare di applausi, di slogan ripetuti insieme a squarciagola. Tutti, anche i più ostici marinai furono coinvolti. Anche quelli che rasentavano la misoginia applaudirono con foga. Adesso. Adesso sì. Virgilia D'Andrea uscì dal teatro fra due ali di folla operaia e marinara festanti. Le forze dell'ordine guardavano stupiti quella donna osannata dai marinai. E i loro colleghi poliziotti a fine anno l'avrebbero tradotta in carcere. La volevano stroncare. Inutile dire che non ci riuscirono. Non con Virgilia. 

Su si lei avrebbe avuto la meglio solo un male incurabile a Nuova York, nel 1933, non certo la corona sabauda. Errico Malatesta ebbe a dire di lei: Ella si serve della letteratura come di una arma; e nel folto della battaglia, in mezzo alla folla ed in faccia al nemico o ad una tetra cella di prigione, o da un rifugio amico che dalla prigione lo sottrae, lancia i suoi versi come una sfida ai prepotenti, uno sprone agli ignavi, un incoraggiamento ai compagni di lotta2. Forse il più bel epitaffio per ricordare una donna coraggiosa in tempi di temperie violentissime e di ideali immacolati e che forse qualche volta avrà ripensato a quelle facce scurite dal sole e dalla salsedine, a quelle mani deformi dall'acqua fredda del mare, alle parole ingenue di donne che per la prima volta si affacciavano sul proscenio della propria vita sociale in una notte di stelle splendenti sulla riva di un mare che per un soffio non divenne quel mare rivoluzionario per il quale lei spese tutta la sua vita. 

 

3. Quando la Viareggio del mare rifiutava ancora di essere una perla del Tirreno: tensioni sociali e politiche nella Viareggio del 1919

Nessun avvenimento, come la Prima guerra mondiale, aveva cambiato fino ad allora così in profondità il tessuto sociale ed economico del paese. Un cambiamento che produsse effetti traumatici dolorosissimi che influenzarono anche i decenni successivi. Dalla guerra uscirono profondamente modificati gli equilibri economici e sociali che non portarono a una stabilizzazione dei territori europei ma semplicemente costituirono il terreno fertile per nazionalismo e fascismo

La fine della Prima guerra mondiale dunque ripropose, peggiorati, tutti i problemi che la propaganda demagogica bellicista aveva asserito si sarebbero superati con la vittoria sugli Imperi Centrali. Ovviamente bugie, come bugie hanno da sempre accompagnato la necessità di formare un consenso forzato nell'opinione pubblica, in tempo di pace, a sostegno della guerra.

Viareggio vide la sua flotta mercantile fortemente ridimensionata, dimezzata, a causa della guerra scatenata dai sottomarini contro il naviglio commerciale. Nel 1919, rispetto ai 180 bastimenti anteguerra per un totale di 25.507 tonnellate, ne rimanevano appena 117 per un totale di 12.300 tonnellate. Le 6420 famiglie che componevano la città si trovarono alle prese con una crisi aggravata, se possibile, da un’influenza, passata alla storia con il nome di “spagnola”. Questa influenza, favorita nella sua virulenza dalle scarse condizioni igieniche e dalla povertà indotte dalla guerra, mieté anche a Viareggio un numero altissimo di vite umane, soprattutto bambini e anziani. Inoltre, proprio dal 1919 la società fiorentina S.V.A.M. iniziò a importare motovelieri a motore dal Nord Europa che, in poco tempo, andarono a sostituire i bastimenti di piccolo e medio cabotaggio e poi, più tardi, i grandi bastimenti oceanici. Gli armatori viareggini, attenti al proprio tornaconto, non persero troppo tempo ad adattarsi alle novità dell'epoca e sacrificarono quell'artigianato navale, e quegli equipaggi valenti, che aveva dato lustro e rilevanza a Viareggio nel mondo. I sapienti artigiani del legno rimasero spesso disoccupati e vennero sostituiti da una manodopera industriale priva di particolari risorse ed esperienze. Così i soldati che tornarono dal fronte trovarono disoccupazione, inflazione e un caro-vita che gettò ancor più nell'indigenza interi nuclei familiari viareggini.

La situazione rese incandescente il clima politico e sociale di Viareggio. La crisi colpì duramente tutto il comparto della darsena, compresi i pescatori che erano l'anello più debole.

In questo contesto così difficile non poteva non destare entusiasmo e curiosità la vittoriosa rivoluzione sovietica che aveva, solo un paio di anni prima, posto fine alla guerra della Russia e portato al potere di un paese immenso il popolo. Viareggio e i suoi operai e marinai non rimasero immuni dalla fascinazione che la rivoluzione sovietica aveva in tutto il mondo. “Fare come Russia” divenne uno slogan molto famoso nel popolo viareggino, e non solo, e fonte di ispirazione e coraggio per reclamare diritti e proporre politiche finalmente a favore delle classi lavoratrici.

Nel biennio 1919-1920 saranno 70 gli scioperi in città. Scioperi con rivendicazioni di carattere prettamente economico e salariale ma anche di carattere politico. In pratica in quegli anni tutte le categorie di lavoratori, attraverso l'azione della giovane Camera del Lavoro nata solo nel 1901, scesero in sciopero. Vi era un'attesa e un'aspirazione a conquiste sociali e salariali che inebriava le masse dei lavoratori.

Il 1919 segna un anno straordinariamente ricco di mobilitazioni operaie a livello nazionale contro il caro-vita. Viareggio ovviamente fu ben dentro a questa mobilitazione tant'è che la Camera del Lavoro (CdL) cittadina nel pomeriggio del 12 giugno organizzò un comizio nel quale lanciò uno sciopero che durerà fino al 14 giugno. Vi saranno anche una serie di incontri con le autorità locali. Sono incontri serrati con il Commissario regio (la giunta comunale era caduta da qualche tempo) per arrivare a concordare una serie di prezzi calmierati per i generi di prima necessità. Non una cosa semplice sia sotto il punto di vista politico che nella concreta realizzazione.

La CdL decise di avocare su di sé tutto il peso di una simile situazione. Lo scopo principale in quella fase era in primo luogo di assicurare l’approvvigionamento delle derrate alimentari alla città. Una volta realizzata questa possibilità assunse il pieno controllo del mercato pubblico al fine di assicurare la vendita dei prodotti a prezzi calmierati. Laddove non si era riusciti a ottenere i generi necessari si era pensato di agire, senza violenza ma con determinazione, attraverso le Guardie Rosse che andavano a requisire direttamente le merci mancanti, o non fatte pervenire al mercato pubblico, nei magazzini e nei negozi della città. La distribuzione dei generi alimentari andò bene e non ci furono particolari problemi.

Ma i dirigenti sindacali si resero conto che una distribuzione una tantum non poteva risolvere alcunché, per questo le settimane seguenti furono contrassegnate da un dibattito interno alla CdL    durante il quale ci si interrogò su come rendere possibile una duratura distribuzione dei vivere a prezzi accettabili. Si decise alla fine di convocare i rappresentanti dei commercianti e il Commissario regio per mettersi d’accordo su una diminuzione non occasionale dei prezzi dei generi alimentari.

In città, intanto, la stagione estiva, con tutto il suo seguito di personaggi politici, nobildonne e galantuomini dell'alta borghesia e aristocrazia, del mondo della cultura e dello spettacolo, era in pieno fermento. Ma le agitazioni e le decisioni che si prendevano all'ombra della Torre Matilde non riuscirono neppure a scalfire lontanamente la loro vellutata agiatezza.

Le trattative sono più complicate e complesse. Non si tratta di discutere solo con il Commissario regio per un’azione una tantum. Adesso si tratta di discutere faccia a faccia anche, e sopratutto, con i commercianti. Essi non hanno gradito l’azione di pochi giorni prima da parte della CdL.

La discussione si accende. I decibel salgono verso vette acutissime. I commercianti della città non si erano mai trovati di fronte una simile determinazione da parte della CdL cittadina. Oppongono, comunque, un rifiuto netto. Ma sono sorpresi da quella CdL piccola, tenace e combattiva la cui direzione è in quegli anni di matrice anarchica.

L’esasperazione e la calura estiva di certo non aiutano la discussione. Alla fine è il segretario della CdL che comunica in modo inappellabile il verdetto: il 4 luglio ci dovete consegnare le chiavi dei vostri magazzini per la requisizione delle merci altrimenti lo faremo da noi.

Il gelo, malgrado l'afa, cala nella stanza. Tutti si voltano verso il segretario. Rimangono spiazzati i rappresentanti dei commercianti, il Commissario regio forse un po’ meno avendoci avuto già a che fare. Dopo un primo momento di sbandamento è dato per ineludibile l’apertura dei magazzini.

La nuova linea del Piave per i commercianti adesso sono i prezzi. La discussione si riaccende. Quali generi? A che prezzo? Chi se ne occuperà? Quando avrà luogo? Tante domande che galleggiano nell’aria fumosa della stanza. Alla fine si deciderà per i generi alimentari di prima necessità con il 50% del ribasso, la vendita avverrà dall’alba del 5 luglio e sarà la stessa CdL a provvedervi.

I rappresentanti dei commercianti sono disorientati. Non era mai accaduta una cosa del genere. E li hanno pure minacciati se non consegnavano le chiavi.

Dall’altra parte della barricata c’è altrettanto stupore. I viareggini di allora, popolo concreto e abituato alla fatica dell’andare per mare, non credono molto alle parole. Vogliono vedere i fatti. In questo istigati anche da chi non è un “rosso” e getta benzina sul fuoco. Ovviamente, a poche decine di centinaia di metri da questi luoghi e da queste discussioni prosegue indisturbata la stagione balneare dei villeggianti.

L’alba del 5 luglio è una bella mattina fresca, tipica delle estati viareggine. Ma c’è un fermento insolito in città. Un brusio e un parlare ad alta voce inconsueto per l’ora. Tutti, o quasi, sono curiosi e interessati a vedere se i “rossi” fanno sul serio o sono solo dei buffoni. Ci sono tutti per strada. I “rossi” e i “bianchi” e quelli a cui la politica non interessa ma che stanno sempre dalla parte di chi gli fornisce cibo e garanzie. Anche i “bianchi” sono in strada perché va bene essere “bianchi” ma si è pur sempre dei lavoratori, delle persone che hanno problemi di lavoro e di soldi. E i ragazzini dei “bianchi” mangiano come quelli dei “rossi”. I “rossi” quel giorno sono più allegri. Ostentano    l'orgoglio di chi è consapevole che sta facendo del bene al popolo. I “bianchi” sono più defilati. Sperano sia vero che ci sarà quella svendita anche se forse in cuor loro sono meno felici.

Luglio prosegue fra bagni in mare per i facoltosi e nobili ospiti della città e le lotte e la misera per l’altra parte di Viareggio. È un mese di grande fermento per la piccola cittadina di mare non ancora

chiamata Perla del Tirreno, ci penserà il fascismo a riesumare questa antica frase. Ma ai marinai di Viareggio questo detto non piace perché cosa c’è di più chiuso e angusto dell’orizzonte di una perla racchiusa nella sua ostrica oppure incastonata artificialmente e tristemente in un anello? E Viareggio e i suoi marinai amano gli spazi, gli orizzonti aperti, quella striscia d’infinito che delimita il mare che vogliono raggiungere, anche se sanno perfettamente che mai in realtà potranno farlo. Questa era l’utopia di Viareggio e dei suoi marinai. L'utopia che l'ha resa grande nei decenni e che oggi è tristemente scomparsa dal suo orizzonte.

4. Gli operai viareggini occupano i cantieri Ansaldo e l'esercito occupa la città.

 

Il Biennio Rosso viareggino del 1919-1920 prosegue contrassegnando un protagonismo forte e maturo del movimento operaio della città. Il sogno di “fare come in Russia” appariva davvero a portata di mano. Mentre invece la reazione delle classi dirigenti e padronali stava alimentando e foraggiando il fascismo - quale braccio armato contro i lavoratori e le loro rivendicazioni - che avrebbe soffocato da lì a poco con la violenza ciò che restava della libertà monarchica e inaugurato il sanguinoso ventennio della dittatura fascista.

Per Viareggio, dunque, si trattava degli inconsapevoli ultimi fuochi, se pur di rilevanza ben più che locale, in cui gli operai e i marinai cercavano e pensavano di poter finalmente decidere del loro futuro. Il paese era giunto a quello spartiacque gramsciano per il quale avrebbe vinto la rivoluzione o la reazione più feroce. Vediamo allora che anche in città nascono le Guardie Bianche, di cui parleremo fra poco, a sostenere le politiche reazionarie    e il crumiraggio antioperaio. Fra gli animatori del braccio armato della borghesia locale vi è Corrado Ciompi, che divenne, fra l'altro, sindaco il 18 luglio del 1921 e mantenne la carica fino al 10 aprile del 1923, quando i fascisti lo cacciarono. Proprio lui che, con tanto di fascia, giunta comunale e banda al seguito, era andato alla stazione ferroviaria a ricevere e ringraziare i 70 squadristi e manganellatori locali di ritorno dalla marcia su Roma il 2 novembre del 1922 esprimendo con gesti plateali e parole accorate tutto il suo riconoscimento e simpatia per l'azione compiuta dal fascismo.

Il vecchio e scaltro politico, insieme al notaro Ciro Casella - anch'egli fautore della nascita delle Guardie Bianche - riaffioreranno come gigli immacolati quando l'inglese Governatore militare alleato Francis H. Waldron, il 13 novembre del 1944, lo impose come sindaco provvisorio della città, in contrapposizione al C.L.N. Corrado Ciompi divenne così di nuovo sindaco per il merito di non essere comunista e dare “garanzie” agli alleati e Casella fu il suo assessore di riferimento. La giunta Ciompi rimase in carica fino alle prime libere elezioni a suffragio universale del 24 marzo 1946 che elessero il Consiglio comunale che decretò, finalmente, il primo sindaco di Viareggio democraticamente eletto nel comunista Sandrino Petri.

La Camera del Lavoro (CdL) - chiudendo questo inciso e tornando al Biennio Rosso - senza paura proclama uno sciopero politico a sostegno delle repubbliche socialiste tedesca e ungherese. I lavoratori della città rispondono in modo corposo, anche se meno numerosi del precedente sciopero sul caro-vita, alla richiesta del segretario Baccelli. Questo sciopero non piace neppure un poco alle autorità regie. Questi della CdL si stanno prendendo troppe libertà, avranno pensato. Stavolta, malgrado il manifesto del prefetto Limongelli che cerca di essere conciliante a parole anche se comunque minaccia di intervenire duramente se ci fossero stati incidenti, l’ordine del governo lo scavalca ed è ancor più netto e drastico: soffocare ogni minimo tentativo di mettere in disordine la città. L’intervento regio è pesante e immotivato. La città viene posta in stato d’assedio. Viareggio non ha mai subito una simile violenza. Non si può né entrare né uscire. Sigillati nel perimetro comunale. Non si può uscire neppure per mare. E i cesti del pesce rimangono tristemente vuoti. Inaudito, pensarono in tanti. In molti si illusero che l’assedio sarebbe durato poco. In fondo nessuno voleva fare niente di male. Ma era un esempio. E quelli fanno più male delle pistolettate.

L’assedio durò, invece, per una lunghissima settimana. Nelle vie cittadine camion pieni di soldati pattugliavano in continuazione alla sera. Una notte in darsena si sentirono esplodere colpi di mitragliatrice. Così tanto per ricordare a quei marinai e operai chi comandasse.

Nelle file della borghesia cittadina qualcuno inizia a perdere la pazienza. Ma cosa vogliono questi “rossi”? Cosa credono di fare? Di essere davvero in Russia? L’avvocato Corrado Ciompi, il notaio Ciro Casella entrambi del Partito Popolare di cui abbiamo accennato sopra e il costruttore navale Adolfo Lippi (che fra l'altro sarà a parlare tranquillamente con Antonio Morganti quando un carabiniere lo assassinò il 2 maggio del 1920), decidono che è giunta l'ora di rispondere ai “rossi” e danno vita ai Comitati per la difesa di Viareggio, insomma alle Guardie Bianche, come vennero poi chiamate. È la risposta della borghesia viareggina agli operai e ai marinai. Le Guardie Bianche affiancano le forze dell’ordine contro i dimostranti. La prima cosa che propongono è di togliere la tessera annonaria agli operai scioperanti.

La domenica sera viene assediata anche la CdL. Fuori della sede la cavalleria, armata di una mitragliatrice. I soldati di stanza di fronte alla CdL perquisiscono chiunque lasci la sede.

Un ufficiale dei carabinieri vorrebbe perquisirla, l’avvocato Luigi Salvatori, che a novembre verrà eletto parlamentare nelle file socialiste, con impeto e fermezza lo dissuade dal compiere quel gesto sciocco e provocatorio. Vengono però arrestati Leonida Fontanini, Faliero Micheli e Eliseo Meciani, nomi illustri del popolo viareggino. E poi ancora Luigi Salvatori e sua moglie.

La situazione in città diventava ogni giorno più esplosiva.

Il mese di luglio si chiude con il rinvio a giudizio per incitamento alla popolazione a rovesciare la costituzione dello stato e insorgere in armi contro i poteri pubblici e altri reati del genere: Narciso Fontanini, Luigi Salvatori, Carolina Annoni, la moglie del Salvatori, e il segretario della CdL Manlio Baccelli fra gli altri. I processi previsti per la fine di agosto prima vennero rinviati su richiesta della difesa e saranno annullati per amnistia il 2 settembre 1919.

A novembre ci sono le elezioni legislative. I popolari le vincono davanti ai socialisti. Durante la campagna elettorale un candidato della lista dei combattenti viene contestato da socialisti e anarchici. Nella confusione un poliziotto spara un colpo in aria creando ancora più panico. I tafferugli si sposteranno nelle vie della città. I preti viareggini non contribuiscono a rasserenare il clima. Il sacerdote Francesco Pellegrini se la prende apertamente con i socialisti accusandoli di aver aggredito e bastonato i popolari dopo la vittoria elettorale.

Appena eletto Luigi Salvatori scriverà al ministro degli Interni chiedendo, inutilmente, la requisizione delle troppe case lasciate chiuse e sfitte in città. Vizio e male antico di Viareggio che ancora perdura a distanza di 100 anni.

Il 1919 si chiude con il tragico naufragio del brigantino-goletta “Carlocci”. Muoiono i sei membri dell'equipaggio viareggino, fra il cui il mozzo. Un bambino di 6 anni al suo primo imbarco.

Ma le lotte operaie non si arrestano anzi in questo 1920 avranno il loro culmine e porranno al città all'attenzione dell'intera nazione.

A febbraio gli operai del cantiere Società Costruzione e Navigazione Velieri, conosciuto come cantiere Ansaldo, entrano in sciopero e successivamente dopo una lunga discussione decidono di occuparlo. Questa scelta rappresenta una delle prime occupazioni di fabbrica in Italia. L'occupazione avviene quasi in contemporanea a quelle dei cotonifici nel canavese e a Torre Pellice. E poi a Napoli e Sesto San Giovanni e all'Ilva di Piombino. Non furono semplici occupazioni ma tentativi veri e propri di sostituirsi alla direzione nella gestione della fabbrica.

Ad aprile ci saranno le più famose occupazioni, fra cui quella lanciate dello “Sciopero delle lancette” di Torino. Il nome dello sciopero fu dovuto al fatto che gli operai si opponevano all'applicazione dell'ora legale che costringeva gli operai a uscire di casa per recarsi in fabbrica col buio anche in primavera ed estate. La contestazione sfociò in una serie di lotte ed episodi di occupazione delle fabbriche, che durarono fra i 10 giorni e il mese, nel caso dei metalmeccanici, e dove Gramsci, Togliatti, Terracini, Camilla Ravera e gli altri de L'Ordine Nuovo lanciarono i Consigli di fabbrica.

 

Ma la Viareggio operaia e marinara era ancora davanti a tutti! Con la sua utopia e il suo coraggio spavaldo e incosciente. E di lì a poco ci saranno le famose giornate rosse viareggine, con la loro peculiarità e unicità nel panorama sociale e politico italiano del tempo, di cui parleremo nel prossimo articolo della rubrica.

5. Viareggio-Lucchese 2 maggio 1920. I 90 minuti che sconvolsero Viareggio.

Il 2 maggio era una domenica di sole splendente. Al pomeriggio era in programma la partita di calcio fra lo Sporting Club Viareggio e la Lucchese. Lo Sporting era stato fondato nel marzo del 1919 dall’accordo sottoscritto da quattro squadre calcistiche della città: la Garibaldi, l’Esperia, la Libertas e la Vigor, presidente fu nominato il notaio Ciro Casella del Partito popolare.

La partita del 2 maggio era il ritorno della Coppa Olivo, coppa del Comitato Regionale Toscano, dopo lo scontro di andata dell'11 aprile, vinto dalla Lucchese per 2 a 1. Partita nervosa e cattiva. Era finita con una rissa. E come sempre capita in queste occasioni i giocatori delle due squadre se l’erano promesse per la partita di ritorno, questa volta a Viareggio. Era sempre così. Viareggio-Lucchese era un derby molto sentito. Figurativamente era la sfida sportiva fra i signori ricchi di Lucca e i cugini poveri di Viareggio. Non che la composizione delle squadre fosse per ceto sociale. In entrambe vi giocavano operai e imprenditori, artigiani e ricchi borghesi ma l’immaginario collettivo di quella sfida era quello fra ricchi e poveri. Signori contro operai e marinai. Giusto o sbagliato che fosse, quello era. Senza contare il sentimento campanilistico, molto radicato, contro quella Lucca che ha sempre cercato inutilmente di trasformare questa città di marinai nella propria marina.

Il campo di Villa Rigutti era strapieno. Oltre 300/400 persone, quasi tutti viareggini. I sostenitori lucchesi erano stati invitati dal Comitato Regionale Toscano, dietro sollecito dei dirigenti lucchesi, a non seguire la squadra a Viareggio. E così i lucchesi intrepidi che non seguirono l’invito furono pochi. E relegati in uno spazio il più lontano possibile dai tifosi locali. Ma la cosa non era facile. Il campo era poco più di un appezzamento di terreno erboso, però alquanto ombreggiato. Disponeva di una baracca in legno per gli spogliatoi; di una piccola tribuna pure in legno e di una transenna fatta alla buona per separare il terreno da gioco dallo spazio riservato al pubblico.

I dirigenti viareggini nei giorni antecedenti la partita chiesero al comando militare di Firenze di inviare rinforzi alle poche forze dell’ordini disponibili in città per fare azione di scoraggiamento per eventuali teste calde. Ma la richiesta rimase inevasa.

La partite era affidata alla direzione dell’arbitro lucchese Rossini. Altra scelta poco felice. Anche se va ricordato che la prima partita del 1920 del campionato Promozione fra Lucchese e Viareggio giocata a Lucca e vinta dai viareggini aveva avuto come arbitro il viareggino Augusto Morganti, che quella domenica era invece il guardialinee

di parte viareggina. I guardialinee in quel periodo era consuetudine che venissero designati dalle squadre, uno per parte.

Il Morganti si congedò dal corpo dei Bersaglieri con la carica di tenente dopo aver trascorso larga parte dei mesi di guerra in prima linea.

Fu ferito in combattimento e venne autorizzato a fregiarsi del distintivo d’onore. In totale trascorse sotto le armi più di 70 mesi pari a quasi 6 anni di servizio. Fu congedato il 25 settembre del 1919. Sposato con Adele Gianni, figlia di Raimondo Gianni e Caterina Franceschi, ebbe due figli: Delhi e Nila. Politicamente era una persona apartitica. Le uniche tessere che aveva in tasca erano quelle della Misericordia, dello Sporting Club e dell’Associazione Combattenti e Reduci. E mai avrebbe potuto sospettare il destino tragico e beffardo che lo attendeva quel 2 maggio. Nemmeno gli austriaci c’erano riusciti.

La Lucchese, dal punto di vista calcistico, era probabilmente forse superiore tecnicamente al Viareggio. I locali, che in ogni caso avevano vinto le due sfide di campionato già disputate, potevano competere dal punto di vista agonistico e della passione. I lucchesi annoveravano fra le proprie fila anche un giovane Giovanni “Johnny” Moscardini, garfagnino di Barga, che giocò per nove volte in nazionale segnando

sette gol. Con la squadra di Lucca giocò anche in serie A. Poi scelse di andarsene in Scozia dando l’addio al calcio.

La partita ebbe inizio.

La passione e il tifo si facevano sentire. Il caldo pure in quello strano inizio maggio. Il Viareggio riuscì a imporre la propria foga e chiuse il primo tempo in vantaggio per due a zero. La ripresa fu di marca lucchese. I rossoneri accorciarono le distanze. Per i bianconeri viareggini iniziò un lungo calvario. Un calvario che si concluderà quando un calcio di punizione, assegnato ai lucchesi dall’arbitro Rossini e che provocò accesi diverbi fra i viareggini e il direttore di gara, non si trasformò in gol grazie a un gran tiro che

terminò alle spalle del portiere viareggino.

La partita riprese e a pochi minuti dal termine una segnalazione del guardialinee Morganti generò un acceso diverbio fra lo stesso guardialinee e il giocatore lucchese Bonino II. Il diverbio proseguì e si accese. L’arbitro Rossini decise che la partita potesse terminare lì e fischiò la fine. Morganti non condivise quella scelta di chiudere

anticipatamente la partita e protestò energicamente con Rossini. Era pur sempre un arbitro anche lui e se oggi faceva il guardialinee era solo per decisione del collegio arbitrale toscano. Al di là delle transenne il pubblico rumoreggiava. La rissa di Lucca bruciava ancora. Iniziarono i tafferugli con i lucchesi.

La situazione degenerò velocemente. Invasione di campo e fuggi fuggi dei giocatori e dell’arbitro. Intervenne il commissario di P.S. Martarelli con alcuni agenti e il tenente Calogero Dogliatti con sette militari che erano in servizio al campo di gioco. Furono facilmente disarmati dai tifosi viareggini. In ogni caso, riuscirono a portare i giocatori, l’arbitro, il guardialinee e i pochi tifosi lucchesi dentro Villa Rigutti. E da lì riuscirono a farli fuggire di gran carriera attraverso i campi che si aprivano dietro il campo da gioco raggiungendo prima Massarosa e poi in serata Lucca. Fuga riuscita. Alcune versioni dicono che i dirigenti dello Sporting misero al servizio dei lucchesi alcune auto per accompagnare a Lucca gli avversari. Intanto qualche militare è corso alla caserma dei carabinieri ad avvisare degli scontri a Villa Rigutti. Il maresciallo Taddei insieme a sette carabinieri corre al campo. Quando arriva nei pressi di Villa Rigutti gli scontri si sono sedati. Ormai giocatori, arbitro e tifosi rossoneri sono lontani. Nei pressi del campo rimangono solo poche persone. Fra queste il Morganti che parla della partita con due amici, fra cui anche il costruttore navale Lippi, che l'anno precedente aveva    contribuito a dare vita alle Guardie Bianche e dunque non proprio un facinoroso bolscevico.

Il carabiniere De Carli intima ai tre e agli altri pochi presenti di disperdersi. Spintona il Morganti che risponde con un gesto della mano che lo invita alla calma. È tranquillo il Morganti. Ha fatto la guerra in prima linea e non si fa certo impressionare da questo carabiniere. Il De Carli prosegue a spintonarlo e con la rivoltella in pugno gliela batte

con forza due o tre volte su una spalla e senza nessuna ragione plausibile gliela punta a una mandibola. Poi la tragedia. Esplode un colpo a bruciapelo contro Augusto Morganti che si accascia a terra.

 

Per saperne di più: https://giornaterosse1920.weebly.com/

 

 

 

6. La marcia su Roma dei camerati versiliesi
Potrà apparire strano per chi è nato nella seconda metà del Novecento pensare che la Toscana, quella che fu definita "La Rossa Toscana" fu una delle terra che vide lo squadrismo fascista imperversare con grande violenza, terra dalla quale il movimento che dette vita alla dittatura ebbe molti fra i suoi massimi quadri dirigenti, fra i quali: Buffarini Guidi a Pisa, Carlo Scorza a Lucca, Pavolini a Firenze, Ciano a Livorno solo per ricordarne alcuni. In Versilia il fascismo iniziò ad attecchire partendo dall'Alta Versilia. Nella primavera del 1921 si aprirono sedi a Pietrasanta, Forte dei Marmi, Querceta e Camaiore. Anche Viareggio vide aprirsi la prima sede nelle stanze del ristorante sopra il bagno Tritone nei pressi della Piazza Mazzini per opera dell'avvocato Lino Reggiani (che diverrà tristemente noto), insieme con il proprietario del ristorante, il fiorentino Mario Gardenghi e Pio Corva. Eravamo nel 1921, un anno dopo le Giornate Rosse e a poche settimane dall'assassinio di Pietro Nieri e Enrico Paolini in Piazza Grande da parte dei fascisti guidati dal Reggiani e dai carabinieri. Segretario della sezione viareggina fu eletto il violento Lino Reggiani, mentre il direttivo era composto da: Carlo Magrini, Giovanni Moro, Ciuffrida Mario Leoni, Raffaello Landini (che ritroveremo alla mefitica marcia e il quale inciampò appena sceso a Civitavecchia in una ben assestata randellata che lo mise a riposo seduta stante!), Castore Nocetti e Lorenzo Rovini. Da questo momento l'espansione del fascismo in provincia di Lucca fu considerevole. Nel 1922 in provincia si passò dalle 15 alle 36 sezioni mentre a Viareggio dagli originari 100 iscritti si passò a circa 400 camerati.

Potremmo dire che il fascismo viareggino nasce sotto l'impulso di persone non della città, forestieri per usare un termine caro a Viareggio. Reggiani, Gardenghi, Corva e molti altri non erano nativi del luogo. Ma sarebbe una magrissima consolazione, perché anche a Viareggio il fascismo divenne dittatura di massa e solo pochi eroici antifascisti, soprattutto comunisti e anarchici ma non solo, trovarono il coraggio e la forza di non cedere alla dittatura. Li potremmo definire: la migliore gioventù della città. Certamente il carattere ribelle di Viareggio ha sicuramente covato sotto la melma della dittatura ma è assolutamente evidente che la popolazione aderì, con entusiasmo o per vigliaccheria, alla dittatura. Furono però non pochi neppure quelli che non vollero prendere la tessera del partito nazionale fascista e per questo persero il lavoro o imbarchi. Proprio come mio nonno Antonio Genovali, e mi scuso per l'autocitazione, che per molto tempo non navigò proprio perché antifascista e per questo non prese mai la tessera del regime. E ovviamente essendo marinaio figlio di marinaio era povero e i figli a casa erano 5. Dunque non un'opposizione alla Benedetto Croce ma un'opposizione concreta che pagò con moneta molto costosa.

Questi brevi flash sia per ricordare che il fascismo fu il male assoluto ben prima delle leggi razziali del 1938 e il coinvolgimento nella II guerra mondiale, come qualcuno tenta di far passare; e sia per ricordare ai troppi che in questi tristi tempi rievocano la dittatura come un avvenimento alla fin fine non così deleterio per il paese.

Il fascismo fu violenza, sopraffazione e la tomba della democrazia.

Tornando ai camerati locali, il fascismo viareggino degli inizi venne fortemente aiutato e foraggiato da una larga parte della borghesia mercantile, con in testa i proprietari di stabilimenti balneari, albergatori, grossi commercianti, spesso venuti da fuori per realizzare le loro iniziative speculative in città. E, proprio come nel resto del paese, vi aderì anche un sottoproletariato immaturo e allettato da vaghissime promesse di riscatto sociale, e molto più spesso da attività corruttive e violente.

Quando Mussolini diede l'ordine di prepararsi alla marcia su Roma presso la casa del fascio milanese, era il 16 ottobre del 1922, i responsabili delle sezioni fasciste italiane si misero all'opera. Reggiani prese contatto con Scorza e dopo averne ricevuto le direttive convocò il direttivo viareggino per organizzare la presenza. Vennero stilate alcune liste fra i fascisti più facinorosi e attivi.

Si giunse così alla mattina del 27 ottobre quando un centinaio di fascisti selezionati vennero richiamati e inquadrati per prendere parte alla marcia romana. Un altro centinaio fu spedito a presidiare il municipio e altre zone, si direbbe oggi, sensibili della città. Solamente il comandante del Balipedio dette ordine ai suoi militari di armarsi e di proteggere il poligono di tiro e la sede di Via Regia. Mentre i militari di stanza alla Torre rimasero tranquillamente in caserma. I fascisti armati e inquadrati attendevano l'ordine di muovere. Alcuni fascisti viareggini vennero inviati a Pisa anziché a Lucca e l'avvocato Lino Reggiani nominato comandante della legione Viareggio e Versilia. I 17 autocarri dei fascisti versiliesi si concentrarono alle scuole di San Donato alle porte di Lucca. I versiliesi erano comandati da: Bellerini, Adriano Ricci e Sigali.

Nella notte i fascisti nostrani, dopo l'agguato eroico alla sede dei calafati in Darsena dove distrussero sedie e tavoli e rubarono la bandiera sociale (bandiera che adesso è tornata da qualche anno a casa ed esposta presso il museo della Marineria sul Lungo Canale), si fecero notare per la loro violenza. Magrini e Leoni, insieme a Vincenzo Gasperetti, Dati e Nannini occuparono la stazione ferroviaria e la locale caserma dove alloggiarono gli squadristi. Il mattino del 28 ottobre la partenza in tradotta con destinazione Civitavecchia. Giunti a destinazione i camerati viareggini e versiliesi si unirono agli altri fascisti toscani. Vi furono subito scontri violenti fra gli antifascisti locali e i fascisti. Due fascisti viareggini: Ubaldo Cestari e Raffaello Landini, di cui si è già accennato, rimasero lievemente feriti.

Dopo sono i fatti storici a raccontarci la ignominiosa retromarcia del piccolo monarca sabaudo e l'avvio della dittatura fascista con il suo carico di morte, violenza e sopraffazione.

I baldanzosi fascisti nostrani, quelli della squadraccia "La velenosa" tornarono in città il 1° di novembre. A riceverli in pompa magna l'allora sindaco del Partito Popolare avv. Corrado Ciompi e il gonfalone della città con la giunta comunale al gran completo. La banda intonò musiche celebrative. Corrado Ciompi è quello stesso Ciompi che nel 1919 costituì le guardie bianche e chiese la sospensione della tessera annonaria per chi scioperava e che dopo un ventennio gli inglesi misero di nuovo arbitrariamente sullo scranno di sindaco di Viareggio, dopo la cacciata dei nazi-fascisti, perché intolleranti del fatto che il comunista Sandrino Petri potesse essere il nuovo sindaco designato dal C.L.N..

Il Ciompi, tornando a quel tristissimo 1 novembre 1922, sguardo dritto e virile nel passo, andò incontro al Reggiani appena sceso dal treno per abbracciarlo e baciarlo con trasporto, mentre il comandante del Balipedio, nel rapporto che fece al prefetto, prendeva nota delle parole da lui pronunciate che inneggiavano al re, alla patria, al fascismo: era il voltagabbanismo tipico della stragrande maggioranza del popolo italico di cui il Ciompi era in quel momento il campione.

 

Il plaudente sindaco venne tolto di mezzo dal fascismo 4 mesi dopo, per tornare, come un galleggiante di sughero di nuovo a galla, sullo scranno di primo cittadino alla caduta di quella dittatura che lui aveva entusiasticamente omaggiato il 1° novembre del 1922. Per avere il primo vero sindaco eletto dal popolo viareggino occorrerà aspettare ancora qualche tempo fino a quando le prime libere elezioni amministrative nelle quali la volontà popolare decise che il reale sindaco della Liberazione fosse il comunista Sandrino Petri.

7. Primo Carnera a Viareggio

 

Il 1 febbraio del 1937 è una serata tutto sommato non fredda per essere in pieno inverno. Al Teatro Eden va di scena la storia pugilistica del paese. Una storia in larghissima parte alimentata e sostenuta artificialmente dal regime fasciste. Sale sul ring Primo Carnera, 120 kg di peso e oltre due metri di altezza. Un gigante. Il pugile friulano, di Sequals a 40 km da Udine, soprannominato "il grande ragazzo" o, all'americana "the walking alp" (la montagna che cammina) impressionò e conquistò il pubblico statunitense negli anni Trenta e il fascismo ne fece fin da subito una propria bandiera nel mondo. E lo stesso fece la mafia italiana negli Usa che lo "curò" in maniera redditizia e alla loro maniera. La sua carriera fortunata inizia il 24 giugno del 1933 quando batte, in modo pulito, per il titolo mondiale dei pesi massimi Jack Sharkey e Mussolini attento e artista della propaganda lo fa subito un eroe nazionale. Al suo rientro lo vestono in camicia nera e lo sbattono sul ring romano di Piazza di Siena per farlo combattere con una mezza tacca spagnolo. Ad assistere alla sceneggiata sportiva gerarchi in divisa e 70.000 spettatori osannanti. E' il simbolo dell'Italia rampante capace di grandi imprese.

Gloria effimera. Un peso troppo gravoso per "la montagna che cammina"

L'anno successivo viene scaricato dal regime dopo la sconfitta con Max Baer dove perse il titolo e ancor di più dopo il ko con l'astro nero nascente del pugilato statunitense e mondiale Joe Louis. In questo caso il regime fascista vieta tassativamente ai giornali nazionali di pubblicare foto del campione steso al tappeto da un nero. Per il povero e ingenuo Carnera inbizia un periodo buio. La sorella di Primo in una intervista di anni fa disse che suo fratello venne strumentalizzato e usato dal fascismo e che e che Primo non era fascista ma solo un ragazzone grande e grosso ma ingenuo che fu travolto dall'ondata della propaganda fascista. Lo ricordava molto triste e solo negli ultimi suoi anni di vita. Nel 1945 i partigiani non lo fucilarono perché riconobbero nel "grande ragazzo" una persona buona e senza malizia.

 

Torniamo al periodo della dittatura fascista. Carnera però non rimane troppo nel fondali della solitudine. Se pur deriso si adatta a fare cose non qualificanti. Però in questi anni conosce la ragazza che diverrà sua moglie e gli darà due figli. Non è un periodo positivo. Carnera combatte ancora e continua a perdere. Dopo l'incontro perso con Haynes in 7 round torna nel camerino con una gamba paralizzata. Il fisico del gigante è minato. Si riposa e dopo alcune settimana torna ma il regime lo ha dimenticato, ma non gli italiani, e per curarsi ha bisogno di soldi. Gli vengono offerti ingaggi per incontri di esibizione. Ed è in questa cornice che arriva a Viareggio. Nel 1937 abbiamo detto è a Viareggio. Non è un combattimento ma solo una eccezionale esibizione nell'ambito delle manifestazioni del carnevale. Gli organizzatori della serata gli fanno fare passerella per le vie cittadine come richiamo per la serata. E' un buono Primo e si presta sorridente anche a questa umiliazione. Assiste dal terrazzo del Margherita al corso mascherato e viene salutato e osannato dalla folla festante del corso carnevalesco. L'incontro-esibizione con Vittorio Livan è una passerella in cui i pugili non affondano i colpi. Sei riprese in cui il popolo viareggino potrò godersi il "ragazzo gigante". In fondo in 96 incontri Carnera solo 3 volte aveva combattuto in Italia prima di Viareggio. Poi il teatrino chiude le porte e il campione lentamente scivola verso l'oblio e la solitudine. Lui che, suo malgrado, il regime lo innalzò agli onori della gloria effimera così lo gettò, suo malgrado e senza colpa, nella polvere e nel fango. Ma Primo Carnera è rimasto nella storia per la sua vita sportiva e la sua bontà. Il fascismo non c'entra niente.\

8. Quando la cultura faceva scalo a Viareggio.
Non esiste più, spazzata via dalla ferocia della Seconda guerra mondiale, la piccola e modesta casa di Manlio Quattrocolo, un piemontese in servizio al Balipedio e di Virginia Luporini, viareggina verace. La casa si affacciava sulle acque allora limpide del canale sul Lungocananle Ovest 35 e la storia che stiamo per narrare è del 1905.

La storia è presto detta: un bel giorno di giugno del quel 1905 Anatolio Vasilievic Lunaciarski venne a fissare la sua casa per il periodo estivo a una lira al giorno. Bussò educatamente alla porta di via Lungocanale Ovest 35 e aspettò alcuni momenti che la signora Virginia venisse ad aprire. Il sole era caldo ma certamente non faceva ancora sudare. Lunaciarski aveva un cappello bianco a larghe tese che gli riparavano il volto dai raggi del sole mediterraneo. Aveva una pelle bianchissima e forse anche per questo non amava troppo esporsi ai raggi solari.

Ma chi era questo signore, si chiederanno in molti.

Questo signore fu un importante personaggio politico dell'Unione Sovietica. Intellettuale di grande prestigio, membro dell'Accademia delle Scienze e amico intimo di molti giganti del XX° secolo a iniziare da Romain Rolland, Henri Barbusse, George Bernard Shaw, Bertolt Brecht. Giornalista, scrittore, fu vice sindaco di Pietrogrado nel 1917 e entrò a far parte dopo la rivoluzione del Consiglio dei Commissari del Popolo occupandosi di istruzione. Poi fu anche ambasciatore dell'Unione Sovietica in Spagna. Le sue ceneri riposano nella necropoli delle Mura del Cremlino insieme agli altri fondatori dell'URSS.

Queso inciso per far comprendere che personaggio fosse questo signore di statura media, distinto, con gli occhiali e la barbetta a punta che bussò alla porta della signora Virginia in quel giugno lontano. Probabilmente era di ritorno dalle fatiche del Congresso del Partito Socialdemocratico svoltosi a Londra nei primi mesi di quell'anno, insieme alla sua compagna Anna Aleksandrova, dopo un lungo esilio dalla sua terra terminato nel 1904.

La moglie era una bella donna bionda che destò scalpore in città perché era l'unica donna a portare i capelli corti. Non si era mai vista una cosa simile in città, nemmeno le signore dell'alta borghesia vacanziera e sabauda avevano mai avuto quella audacia. Insomma per le donne di Viareggio era una scelta al limite della provocazione quella!

In ogni caso affittarono la casa per tutta l'estate.

Lunaciarski, racconta la signora Virginia, non usciva quasi mai. Al mattino il postino Lencioni gli consegnava sempre un gran mucchio di corrispondenza che lui sbrigava fino a mezzogiorno, alternando questo rito a letture di giornali e riempiendo lunghe pagine di un quaderno che teneva sempre con sé al tavolo da lavoro.

Gli unici svaghi che si concedeva erano gli spettacoli della compagnia Niccoli di Firenze quando venivano al Politeama di Pea. Andava con la moglie ogni sera, per poi passeggiare tranquillamente sul lungo mare durante il fresco della notte. In quel periodo non parlavano italiano fino a quando la signora Anna decise di impararlo. Prese delle lezioni dalla profesoressa Pardini ma dopo un po' preferì imparare a parlare la nostra lingua stando insieme a noi seduta davanti all'uscio di casa. La signora era bella ma anche simpatica e gentile. Si era procurata una bicicletta e ogni mattina andava a fare il bagno allo stabilimento balneare Oceano. Aumentando la confidenza Anna fa capire che erano fuggiti dalla Russia a causa dello zar e ci diceva che la condizione degli operai e delle persone povere di Viareggio erano condizioni infinitamente migliori di quelle di cui soffrivano i poveri e gli operai sotto lo zar. Durante l'inverno risiedevano a Firenze. Virginia non sa dire perché il signor Lunaciarski non venne a Viareggio l'estate successiva del 1906. Ma ce lo dice la storia, quella con la maiuscola, che ha interagito con il popolo viareggino. Semplicemente perché dovette fuggire in Svezia per evitare di nuovo la galera zarista. Ma il signore con il pizzetto non fu un personaggio secondario. Proprio in quegli anni ha un forte scontro niente meno che con Lenin. Un giorno di quella lontana estate viareggina, all'ombra dei pini e con l'odore acre della pece e del legno lavorato da segantini nelle narici, venne a trovarlo un signore basso e ben vestito. Si chiamava Michail Frunze, generale sovietico che riorganizzò poi l'Armata Rossa nel 1919. Il generale tornò di nuovo a Viareggio nel 1910 portando di persona i saluti di Lunaciarski alla signora Virginia e a suo marito.

 

Così andavano le cose allora e questo pezzo è stato possibile dopo aver riletto il bel libro di Leone Sbrana: "Viareggio momenti di storia e di cronaca".

I TERREMOTATI DI MESSINA A VIAREGGIO

 

In questo articolo vogliamo parlare di un fenomeno disastroso che rimarrà nella memoria degli italiani ancora per secoli. Il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908. Vi chiederete il perché parlare di questo evento tragico nella rubrica dedicata a Viareggio nel XX° secolo. E fra poco ve lo diremo.

Il terremoto di Messina, con conseguente maremoto, è considerato uno dei più catastrofici fenomeni naturali del secolo scorso con un magnitudo 7.1 che il 28 dicembre danneggiò gravemente le città di    Messina e    Reggio nell'arco di 37 secondi. Niente sarebbe rimasto uguale a quello che c'era prima di quei 37 maledetti secondi di morte. Oltre metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella della città calabrese perse la vita: Messina, all'epoca contava circa 140.000 abitanti, ne perse circa 80.000 e Reggio Calabria registrò circa 15.000 morti su una popolazione di 45.000 abitanti. Oltre ovviamente a feriti e persone che rimasero invalide. Si tratta della più grave catastrofe naturale in Europa per numero di vittime, a memoria d'uomo, e del disastro naturale di maggiori dimensioni che abbia colpito il territorio italiano in tempi storici.

Fra i tanti morti risulta anche il nonno di Bettino Craxi, Benedetto, insegnante di Lettere e Filosofia e fra gli scampati il piccolo Salvatore Quasimodo di 7 anni futuro premio Nobel per la Letteratura. Messina era allora una città conosciuta, vivace e ricca intellettualmente. Con un sistema economico basato sul commercio marittimo ospitava, già da qualche generazione, comunità inglesi, svizzere e tedesche e con una buona presenza di turisti.

Questo preambolo solo per dare alcune informazioni e contestualizzare quel disastro immane.

Bene, dopo il terremoto in molti vollero cercare di riprendere a vivere lontani dalle loro città distrutte, altri vi furono costretti.

Un gruppo di profughi arrivò anche a Viareggio. La città, come sempre crogiolo di contraddizioni e slanci vitali, accolse con solidarietà le vittime del terremoto e del maremoto. Ma, purtroppo, le cose peggiorarono rapidamente. Forse se sei profugo devi essere per forza servile e umile. Non devi proporre le tue tradizioni e addirittura parlare un dialetto diverso e incomprensibile era quanto di peggio potessero fare quella povera gente, anche se l'italiano francamente lo conoscevano in pochi sia fra i profughi che fra gli indigeni. Sicuramente quelle persone avevano una cultura diversa da quella dei viareggini, ancor oggi esistono tradizioni e costumi molto diversi fra le varie realtà regionali e figuriamoci allora quando non esisteva televisione, radio, viaggi e i giornali li leggevano solo i borghesi.

Ma per persone violentate dallo strazio della morte, abusati nei loro averi e affetti dalla perdita delle loro cose e delle loro case in 37 secondi, con familiari morti o dispersi, con le proprie vite distrutte in un soffio di tempo e, soprattutto e spesso, coartati in una realtà per loro sconosciuta (e non eravamo al tempo di internet e dei viaggi low cost) furono sicuramente un dramma nel dramma.

Fatto sta che nel giro di qualche settimana una parte della cittadinanza viareggina stilò un appello, firmato da molti, da far pervenire alle autorità affinché i profughi venissero allontanati da Viareggio. Cosa che avvenne. Forse qualche politico razzista di questi nostri tristi tempi avrebbe detto che la loro pacchia a Viareggio era terminata.

E così la Viareggio solidale e marinara, la Viareggio anarchica e socialista ma anche bottegaia, egoista e reazionaria si macchiò di questo misfatto. Sì, la parola è giusta è misfatto. Il diverso, specie se povero e smarrito in una realtà che non conosce, è sempre una buona occasione per instillare paure e egoismi in un popolo semi analfabeta e vigliacco. Così andarono le cose nel 1908, anche se la Viareggio operaia e marinara seppe riscattarsi negli anni a seguire con prove di grande solidarietà, giustizia sociale e libertà contro soprusi e dittatura.

Cesare Battisti e il gran rifiuto di Viareggio
Cesare Battisti: traditore o patriota? Vecchio dilemma che a noi oggi, per la nostra rubrica, non interessa approfondire. Battisti fu un irredentista trentino e socialista, fautore del passaggio dell'Italia dalla neutralità all'intervento diretto nella Prima guerra mondiale. Battisti, pare che riuscì anche a convincere il Mussolini socialista e direttore dell'Avanti, a passare dalla neutralità alla guerra, attraverso una sua lettera personale. Sicuramente la lettera scritta da Battisti a Mussolini fu importante ma ben difficilmente un arrivista e un opportunista del calibro di Mussolini si sarebbe fatto convincere da Battisti. L'ingenuo interventista forse pensò davvero di essere in grado di convincere uno come l'allora direttore de L'Avanti! Però questo è un aspetto poco conosciuto della vicenda e suscita sempre un po' di stupore.
Cesare Battisti nasce nel febbraio del 1875 a Trento, cittadino austriaco nel corso della sua vita fu direttore di giornali socialisti arrivando ad essere deputato al Parlamento di Vienna. Il suo irredentismo veniva da lontano, già in giovane età si batté per ottenere l'autonomia amministrativa del Trentino e la nascita di una università italiana.
Allo scoppio della guerra - che si sarebbe potuta evitare ricercando le possibili soluzioni ai problemi sul tappeto per via diplomatica – fugge in Italia dove inizia una campagna a sostegno dell'intervento italiano e successivamente si arruola negli alpini italiani. Si arruola cioè, per gli austriaci, con il nemico, lui che era membro del Bundersrat dell'Austria.
In quegli anni vi erano tre grandi filoni politici che predicavano l'entrata in guerra dell'Italia. Il primo, quello del sindacalismo rivoluzionario - pensiamo a Filippo Corridoni e ad Alceste De Ambris, sindacalisti dell’Usi che poi vennero cacciati dal sindacato per la posizione interventista - postulava l’idea che la guerra potesse costituire l’occasione per far scattare la molla della rivoluzione. Il secondo, quello post risorgimentale - in particolare sostenuto dai repubblicani, pensiamo al giovane Pietro Nenni, ma anche ai forti richiami lanciati dal fervente comizio di D’Annunzio a Quarto e al suo paragonare l’intervento con la gloriosa spedizione dei Mille - concepiva la guerra come completamento dell’Unità d’Italia. L’irredentismo di Battisti, richiamava al dovere di liberare le terre italiane del Trentino, allora sotto dominazione austriaca, e si ispirava a questa impostazione, ma si conciliava con una marcata convinzione socialista. Infine, il terzo quello democratico - proprio di esponenti di primo piano del Psi, da Bissolati, che assieme a Bonomi, a Cabrini e ad altri era stato espulso dal partito per le sue tendenze filo giolittiane proprio da Mussolini al congresso nazionale di Reggio Emilia del 1912, anche se la goccia fu la sua visita al re dopo uno scampato attentato, ma anche Pertini, Mondolfo, Rosselli - la guerra era conflitto necessario contro le potenze imperialistiche e antidemocratiche. E volgeva lo sguardo anche ai diritti all’indipendenza dei popoli dei Balcani, sottomessi alla duplice dominazione ottomana e austroungarica. Battisti, dunque, si arruolò volontario e inquadrato nel Battaglione Alpini Edolo, 50ª Compagnia, combatté al Montozzo e per il suo sprezzo del pericolo in azioni arrischiate ricevette, nell'agosto del 1915, una medaglia di bronzo, trasformata successivamente in medaglia d'argento. Dopo essere stato promosso tenente, venne trasferito ad un reparto sciatori al Passo del Tonale e successivamente, al Battaglione Vicenza del 6º Reggimento Alpini, operante sul Monte Baldo nel 1915 e sul Pasubio nel 1916. Catturato, venne processato per alto tradimento dagli austriaci e impiccato il 12 luglio del 1916, insieme a Fabio Filzi, nel castello del Buonconsiglio dove venne celebrato il processo.
Ma la nostra attenzione si rivolge oggi alla sua venuta a Viareggio per propagandare l'entrata dell'Italia nella Grande Guerra.Il 14 settembre 1914 era già scoppiata una rissa furibonda presso il Gran Caffé Margherita. C'erano nel mezzo grandi nomi della cultura italiana e locale e tutti interventisti. Lo scrittore Giuseppe Prezzolini, Enrico Pea, Lorenzo Viani, Moses Levy intorno al "poeta", Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, il generale della compagnia d'Apua. E' del gruppo anche Giuseppe Ungaretti, anarchico di vocazione, provocatore di gioventù, destinato al carcere alla fine di quella giornata memorabile: "Una delle prime piazze che si incendia in Italia per la guerra mondiale", ricorda lo storico Umberto Sereni. Il 20 settembre era già festa nazionale e a Viareggio si celebrava la fine del potere temporale del papa e la presa di Porta Pia. C'era la banda che iniziò a suonare la Marcia Reale. Tutti si alzarono in piedi, meno gli interventisti sopra ricordati. In più Ungaretti iniziò a leggere platealmente e provocatoriamente un giornale. Ci sono ufficiali che iniziano però a essere nervosi. C'è anche una pernacchia all'indirizzo della Marcia, pare possa essere stato Ungaretti stesso, anche se non ci furono mai le prove. Scoppiano tafferugli. Ungaretti finirà in carcere.  A Viareggio in estate, però, il dibattito si era già animato. Da Milano arrivarono Franco Ciarlantini, futuro editore di Viani, ma soprattutto giornalista del Popolo d'Italia, fondatore del primo istituto di propaganda italiana a Trento e intellettuale che sarà vicino a Benito Mussolini; torna il maestro Dante Dini di Camaiore che insegna nel capoluogo lombardo; lo scrittore Giovanni Capodivacca – Gian Capo – scrittore e giornalista del Popolo d'Italia. Poi ci sono gli intellettuali della compagnia (poi "repubblica") d'Apua. Tutti convinti che la "guerra rigeneratrice" avrebbe messo fine "al mondo incatenato alla sofferenza". Ceccardo, nato genovese, ma toscano di adozione, li guida in questa direzione, li avvicina ad Alceste De Ambris, uno degli esponenti di spicco del sindacalismo rivoluzionario in Italia, nato a Licciana Nardi, ma conosciuto in tutto il mondo dalla Francia al Brasile, da Roma a Livorno, dove diventa segretario della Camera del Lavoro1.
Insomma un bel crogiolo di interventisti. Ma Viareggio e i suoi operai, i suoi marinai, il suo popolo sono di ben altro avviso. E di lì a poco lo sapranno anche questi interventisti. La vita politica della città in quei lontani mesi e giorni era stata effervescente. Almeno quella in darsena. Ormai da tempo la discussione era tutta concentrata su intervento o non intervento nella guerra in corso. Viareggio come l’intero paese sta discutendo animatamente e con passione vista la posta in gioco. E a Viareggio come nel resto del paese chi vuole la guerra è minoranza. Potente, ma minoranza e tutti i fautori del non intervento sperano e lottano affinché questo dato prevalga. Il Sole sta iniziando la sua discesa quotidiana, quel 30 gennaio 1915, per tuffarsi nell’orizzonte del mare lasciando la scena e la vita alla sua eterna e inseparabile amante e al buio di una notte stellata che ti strappa l’anima. Una notte da grandi avvenimenti. In Passeggiata, al teatro Politeama quasi in riva al mare, gruppi di uomini stanno lentamente entrando in attesa che arrivi l’interventista trentino Cesare Battisti. Sono gruppi animati: ci sono i ferventi anti interventisti con i socialisti dell’avvocato Salvatori e gli anarchici con Pietro Fabiani e il segretario della Camera del Lavoro, Ovidio Canova, per tutti il Presidentino che un anno dopo morirà sul Carso. Le sue spoglie riposano nel famedio del cimitero di Viareggio. Nella foto sorride il giovane rivoluzionario, anche se la data di nascita è errata. Ma c’è anche chi è a favore dell’intervento, Lorenzo Viani con il suo fiocco nero e i capelli sempre scarmigliati; Eugenio il mazziniano con il fiocco rosso che chiude la camicia e il suo pizzetto ben curato su di un viso scarno, e poi, c’è anche qualche contadino della tenuta dei Borboni, mandato dai loro padroni a contestare il Battisti che vuole la guerra all’Austria. Ma sono pochi. I socialisti e gli anarchici riempiono quasi interamente il Politeama. Il piccolo gruppo di nazionalisti che ha organizzato la venuta del Battisti sono poche decine. Il Politeama è strutturato a forma di ferro di cavallo e l’aria dentro è ormai una coltre di fumo che si innalza fino a pochi metri dal soffitto. L’atmosfera subito si scalda. La tensione è altrettanto palpabile come la coltre di fumo prodotto da un trinciato forte. La discussione si accende prima fra le fila dei palchetti. Una discussione accesa ma più politica. Poi è la volta del loggione, lassù in cima al teatro e adesso acquista caratteri più sanguigni, meno politici. E, infine, discende in platea. Un vociare confuso. A volte rombante, altre volte quasi un filo di voce composto da decine di voci fuse insieme si espande e volteggia nel teatro fondato dal poeta, pure lui interventista, Enrico Pea e proprio in questi tristi nostri giorni miseramente svuotato e saccheggiato della sua storia. Sul palco c’è il leggio destinato ad accogliere i fogli che dovrà leggere l’irredentista trentino. Il palcoscenico è ancora vuoto ma ormai manca poco, pochissimo. In platea e nei palchetti però ci sono anche i favorevoli all’intervento. Improvvisamente il silenzio, un silenzio pesante e innaturale cala sul teatro. Appare un ometto, un nazionalista locale che inizia a parlare per presentare l’ospite. È un ex ufficiale dell’esercito. È stempiato e basso. Rigido nella sua postura che lo rende quasi una macchietta umoristica. Impettito inizia a parlare con voce ferma e impostata mentre il grottesco riporto dei capelli si scompone un po’ destando qualche risata in teatro. Poi appare il Battisti, in doppio petto, gli occhi straniti che scrutano quella platea, di operai e marinai, in larga parte ostile. Inizia a dire le prime parole a sostegno della guerra. Un diluvio di grida e un boato di parole si riversa verso e contro di lui. Si grida per la guerra e contro di essa. I socialisti e gli anarchici urlano la loro rabbia e le loro idee. Gli interventisti rispondono con grida a sostegno dell’intervento. L’avvocato Salvatori chiede che il Battisti prosegua e richiama il diritto al contraddittorio. Da un palchetto sotto il suo Lorenzo urla con la sua voce leggermente nasale: “Macché contraddittorio non è possibile. Che Battisti parli e basta”. Un vecchio marinaio con l’unico occhio rimastogli che scintilla urla all’irredentista trentino: “Perché non vi siete ribellati all’Austria trent’anni fa quando impiccarono Oberdan?” Ma non è serata di domande. La situazione degenera rapidamente. L’ometto nazionalista con il riporto dei capelli sempre più scompigliato decide che il Battisti non possa più rimanere sul palco. In platea e fra i palchetti scoppia definitivamente la rissa. Vola di tutto: poltroncine, sgabelli e tutto quello che capita a tiro. Le forze dell’ordine presenti non possono fare granché. La baraonda scuote il Politeama, come una tempesta scuote un bastimento. È un susseguirsi di ondate di furore che si abbattono su una parte o l’altra della contesa. Attacchi e contrattacchi in ordine sparso segnano la vittoria finale di chi non vuole la guerra, di chi non vuole morire inutilmente per gli interessi di altri. Per gli interessi dei soliti. La rissa poi prosegue anche in una parte della città fino a notte tarda2I nazionalisti locali invitarono nuovamente il Battisti per la fine di febbraio di quell'anno ma, stavolta, fu direttamente il prefetto, di propria iniziativa, a negare il via libera per la manifestazione evitando nuovi problemi di ordine pubblico. E così Cesare Battisti non poté parlare a Viareggio, unico caso in tutto il paese, a sostegno di una guerra che non avrebbe risolto niente di più di quello che avrebbe potuto tranquillamente essere risolto attraverso la diplomazia e la politica. E con molti milioni di morti in meno, compresa la sua vita.

1I. Bonuccelli, “Ungaretti arrestato: voleva che l'Italia entrasse in guerra” di Ilaria Bonuccelli, Il Tirreno 20 settembre 2014

 

 

2A. Genovali R. Gérard: Ali per sognare. Vita appassionata di un anarchico viareggino. Pezzini editore 2017